Valentina Petrini, giornalista 1ª classificata al Premio Di Donato, intervistata da Luce Tommasi

Morire al lavoro come in guerra
Intervista a Valentina Petrini, prima classificata al Premio Di Donato con il Sistema Monfalcone per Nemo di RAI 2 

Valentina in questi giorni è a Taranto, la città dove è vissuta sino a 19 anni e dove ritorna spesso. È lì per partecipare ad un evento che si intitola “La fabbrica delle notizie” e per rispondere alle domande degli studenti di un liceo linguistico. Mi dice subito con l’entusiasmo che la contraddistingue: “Ci tengo a fare iniziative come queste, sia perché sono un laboratorio sperimentale importantissimo, sia perché desidero mantenere il legame con le mie radici”. E continua: “Mamma è di Roma, papà è tarantino e il Sud mi ha dato tanto”. Valentina Petrini è arrivata a Roma con la valigia in mano una ventina di anni fa e ha scelto di imparare il lavoro di giornalista lontano dalle scuole, sporcandosi le scarpe e andando sui luoghi dove le cose accadono. “Sono orgogliosamente figlia di operai – chiarisce – e le scuole di giornalismo costavano troppo per me”. 
Dopo l’impegno a RAI 2 con “Nemo Nessuno escluso”, adesso collabora di nuovo con Corrado Formigli a Piazzapulita su LA7. Ma è proprio con l’inchiesta “Il Sistema Monfalcone”, realizzata con Giuseppe Ciulla per Nemo, che Valentina ha vinto il primo premio per Radio e Televisione del Concorso “Pietro Di Donato”, promosso dal Comune di Taranta Peligna in collaborazione con l’ANMIL. 

Perché hai deciso di partecipare al Premio Di Donato?
È stato Giuseppe Ciulla che ci ha iscritto al Premio. Questo lavoro infatti non sarebbe stato possibile senza la collaborazione dell’amico Monzor Allam, un lavoratore di origini bengalesi che vive a Bologna e che ha realizzato con noi l’inchiesta, cercando di infiltrarsi in questo mondo per cercare di capire in base a quali regole gli operai di origine straniera arrivavano così numerosi a Monfalcone e come riuscivano ad entrare nella rete delle ditte appaltatrici e sub appaltatrici. Io conoscevo già il Premio Di Donato perché l’anno precedente avevo ricordato con un video – proprio in occasione del Premio – la memoria di un amico, di un fratello, Alessandro Leogrande. Stimo tantissimo Taranta Peligna perché chi non conosce questa realtà non può capire che impresa compia un comune così piccolo e sconosciuto soprattutto ai giovani. E così, alla fine dell’anno scorso, ho avuto l’occasione di incontrare di persona tutto il gruppo che anima questo Premio. 

Tu hai un curriculum con numerose inchieste sul lavoro che uccide, a cominciare da quella sull’Ilva che avvelena Taranto, la tua città. Perché questa volta hai scelto di parlare dei cantieri navali di Monfalcone? 
Premetto che abbiamo lavorato tanto a questa inchiesta e che abbiamo anche faticato perché, quando si cerca di raccontare una realtà così imponente come quella di Fincantieri, è chiaro che ci possono essere delle preoccupazioni. Ma il nostro vero intento era di fare la fotografia di un sistema economico e di lasciare a chi di competenza la possibilità di approfondire i nostri spunti. Questo dovrebbe essere il ruolo del giornalismo. Noi infatti non siamo partiti con una tesi da dimostrare e abbiamo impiegato tanti mesi di tempo per realizzare questo lavoro perché volevamo capire che cosa succedeva e approfondire, passo dopo passo, gli spunti. Non per niente è stato un grande lavoro di squadra perché, soltanto grazie al confronto, è stato possibile vedere meglio le cose. Per esempio la denuncia degli infortuni, che credo sia il punto più importante della nostra inchiesta, è stata scoperta man mano che lavoravamo. Avevamo ricevuto delle segnalazioni da sindacalisti e operai, che ci parlavano di anomalie riscontrate nel meccanismo di denuncia degli infortuni, ma non sapevamo né se fossero vere, né che forma avessero. Quindi – ripeto – non avevano nessuna tesi da dimostrare. Ci siamo spesi, abbiamo scoperto delle cose e abbiamo provato a proporle perché venisse migliorato il sistema dei cantieri navali. C’è poi un altro motivo alla base dell’inchiesta. Nella nostra società, per parlare di integrazione e per capire che cosa stia succedendo nell’incontro con il diverso, con il migrante, penso sia fondamentale occuparsi dei meccanismi economici che mettono le persone le une contro le altre. E quindi, nel momento in cui Monfalcone era in primo piano sulle cronache nazionali per l’alta percentuale di stranieri, sentivo l’esigenza di raccontare che il problema non era l’incontro con il diverso, ma la lotta tra poveri alimentata dai sistemi economici. È faticoso per le persone capire come stanno le cose, in un contesto in cui siamo bombardati da informazioni che rendono difficile la percezione di ciò che è vero e di ciò che non lo è. È una sorta di corto circuito generale e i primi ad essere responsabili dovrebbero essere coloro che rappresentano le istituzioni e che dovrebbero basare i loro allarmismi su dati reali e non crearne ad hoc per ottenere consenso. 

La tua denuncia si è concentrata in particolare sulla rete di centinaia di imprese che gravitano attorno a Fincantieri e in cui si perde il concetto di responsabilità. È questo uno dei primi nodi da sciogliere? 
Sì, assolutamente, in quanto in Italia c’è un grande tema, che andrebbe subito affrontato, che è quello della regolamentazione del mondo degli appalti. È chiaro che, fino a quando non saranno definite pochissime regole trasparenti per far sì che tutti lavorino con la medesima modalità, allo stesso costo orario e con il riconoscimento della pari dignità, sarà facile che nella catena delle responsabilità tutto ricada sul lavoratore. Noi abbiamo raccontato che, alla fine dei giochi, anche le piccole ditte sub appaltatrici scaricano sui lavoratori, magari stranieri, precari e con contratti da rinnovare, la colpa di essersi fatti male. E quindi questo meccanismo spinge il lavoratore debole, indifeso e ricattabile ad avere paura di denunciare l’infortunio, anche quando nessuno lo obbliga. Certe volte pensiamo che servirebbero più norme, mentre ne occorrerebbero di meno e magari più chiare. In secondo luogo, andrebbe eliminata la regola del ribasso perché, se il sistema fa sì che chiunque offra meno possa accedere ad un appalto importante, allora si fa spazio a qualsiasi tipo di violazione. Bisogna riconoscere qual è la cifra giusta perché un lavoro venga fatto in maniera adeguata e dignitosa. Noi dovremmo provare a metterci nei panni delle persone che compongono il sistema economico e fare in modo che anche per le multinazionali e le grosse aziende, che si avvalgono di società in appalto e sub appalto, esistano regole e responsabilità precise. È un punto fondamentale per cercare di eliminare il problema alla radice. La battaglia è annosa e prima di me ci sono stati altri colleghi che hanno denunciato questo tipo di anomalie. E allora perché non si è fatto niente finora?

“Andiamo a lavorare, di lavoro si muore, andiamo in guerra”: dice uno degli operai che hai intervistato. Una frase che lascia il segno. Poiché molti operai non denunciano per paura di perdere il posto di lavoro, come fare per rompere questo giro vizioso?  
La domanda vera è – come ho appena detto – perché non si è fatto niente finora? Mi piacerebbe che emergesse il mio stupore. È tutto sotto gli occhi di tutti. Quando i genitori si occupano dell’educazione dei figli, se i figli hanno un problema intervengono immediatamente e non lasciano che la situazione si incancrenisca e diventi più grave. Io vedo lo Stato come un genitore. 

Tu hai raccolto l’appello inascoltato dei sindacati di Fincantieri che hanno invitato i lavoratori a non entrare nello stabilimento dopo la morte del loro giovane collega. Anche qui la paura di disobbedire al padrone ha inciso sui comportamenti ? 
A questo proposito c’è anche un altro problema. Mi riferisco al fatto che, purtroppo,  quella classe operaia nuova, che ho visto per mesi entrare all’alba in Fincantieri, non è più tutta rappresentata dai sindacati. Il dato vero è che, nella realtà di Monfalcone, soltanto circa 1000-1100 lavoratori sono stati assunti a tempo indeterminato direttamente da Fincantieri e sono sindacalizzati. Fuori da questa categoria, ci sono altre migliaia di persone che invece molto spesso non sono sindacalizzate. Questo è il nodo della nostra contemporaneità: non è più automatico che la classe operaia, la classe lavoratrice, sia rappresentata dai sindacati. 

Hai trovato ostacoli per realizzare l’inchiesta? È stato difficile girare le immagini e fare le interviste? 
Tantissimi ostacoli. Prima di tutto da parte dei lavoratori, anche di quelli a tempo indeterminato e non soltanto dei precari delle ditte subappaltatrici. Questo già ci dà una prima dimensione del problema perché, se un lavoratore non è libero di esprimere una preoccupazione, si tratta di un segnale preoccupante e che vediamo ormai ovunque. È un termometro che segnala che la febbre si sta alzando.  

Il giornalismo investigativo dà un valore aggiunto al lavoro di un cronista?
Esistono tante forme di giornalismo e ritengo che anche lo strumento del reportage sia fortissimo. Il racconto documentaristico della società ha un ruolo pazzesco perché aiuta a vedere determinati meccanismi. Consiglio però a tutti i giovani, almeno all’inizio del loro percorso giornalistico, di vivere una fase plurale e di sperimentare più cose. Io ho avuto la fortuna di fare la scuola di strada e lo dico con orgoglio. C’è un uomo che ricordo con grandissimo affetto, Lorenzo Colantonio, uno dei primi che mi ha messo una macchina fotografica in mano. Sono arrivata da lui, a Pescara, quando avevo appena 22 anni. Non dimenticherò mai che cosa mi ha detto appena mi ha visto: esci e torna quando hai trovato una notizia. E io ho pianto per due ore. È stata un’esperienza pazzesca perché sono stata messa nelle condizioni di sperimentare, di stare in mezzo alla gente, di osservare, di parlare. Restando fermi dietro una scrivania, si ottiene poco. Ma quando, una ventina di anni fa, sono arrivata a Roma con tanta voglia di fare, è stato tutto bellissimo e ringrazio anche per tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare e che mi hanno resa forte. 

La televisione regge ancora rispetto al web e a quali condizioni? 
Penso che, in generale, sia sbagliato dire che la televisione sia meglio del web, che la carta stampata superi qualunque altro tipo di informazione e che il web sia il mezzo peggiore in assoluto. Bisogna essere al passo con i tempi, saper leggere la modernità. Tutti gli strumenti di comunicazione possono essere devianti, se non vengono utilizzati in base a semplicissime regole etiche. Io sono molto curiosa di capire come i ragazzi si informano perché, visto che tutti i dati ci dicono che i giovanissimi non vedono la TV e non leggono i giornali, sarebbe sbagliato dire “sì” alla televisione e “no” al web. Se i ragazzi oggi si informano attraverso internet, la nostra responsabilità è di capire come favorire un giornalismo corretto sul web. È vero che la rete presenta tantissimi problemi e che ci sono le fake news, ma la rete è a anche quel posto magnifico dove, a costo zero, chiunque voglia trovare la verità può farlo, raggiungendo le persone che stanno dall’altra parte del mondo e vedendo direttamente i luoghi di cui si parla. Credo comunque che esista un’emergenza che accomuna rete e TV: non possiamo continuare a produrre contenuti soltanto per gli ultra cinquantenni. Dobbiamo sentire la responsabilità di raccontare la realtà anche agli under 20, perché altrimenti escludiamo le nuove generazioni dal nostro racconto. Questa credo sia la strada che tutti i mezzi di comunicazione dovrebbero seguire. Le nuove generazioni che – a cominciare da mio nipote che ha 5 anni – sanno utilizzare le tecnologie in modo spaventoso, vanno sostenute e a loro vanno dati gli strumenti perché non vengano manipolate. Anche i ragazzi devono poter utilizzare le rete per diventare a loro volta protagonisti dell’informazione. Aggiungo che non dobbiamo assolutamente trascurare un segnale: sempre più persone, non solo tra gli adulti, ma anche tra i giovani, mettono in discussione la credibilità del giornalismo. Non è più soltanto il politico ad essere considerato poco credibile, ma è anche il giornalista a non essere più ritenuto autorevole. Per questo si stanno diffondendo forme di auto racconto e chiunque con un telefonino può girare un video e metterlo in rete, rendendosi protagonista della narrazione di ciò che sta accadendo. Questo è il presente e riconoscerlo è il modo migliore per partecipare e dotarci di regole di comunità, senza perdere il contatto della comunicazione. Non demonizzo nessuno strumento, lotto piuttosto affinché la mediazione giornalistica riacquisti la sua autorevolezza. 

Che cosa ti aspetti dal tuo futuro professionale?
Mi aspetto di poter continuare a fare questo lavoro che considero un privilegio. Mi sento fortunata e tutti i giorni, quando mi sveglio, ringrazio di fare la giornalista perché sono circondata da persone, amici e fratelli, che hanno studiato tantissimo e che oggi si devono accontentare di fare un lavoro diverso da quello che sognavano. Voglio però sottolineare che la mia è una generazione di precari. E io, come la maggior parte dei colleghi della mia età, non ho un contratto giornalistico a tempo indeterminato. Tutti noi versiamo i contributi alle gestioni separate e ogni volta che si chiude un contratto, o che un programma finisce, vengono messi in discussione il nostro posto e il nostro futuro lavorativo. E anche se io sono più fortunata rispetto a tanti altri, questa è la fotografia del presente e sarebbe opportuno che chi ha più anni di noi lo tenesse in considerazione. Aggiungo, come donna, che sono doppiamente preoccupata per questa condizione di precarietà perché, ogni volta che penso di fermarmi per fare famiglia, ho paura di non poter risalire sul carro. Il mio terzo sogno per il futuro è di avere la possibilità di dire sempre di più la mia e di realizzare contenitori dove, non solo io lavoro per qualcuno, ma lavoro per qualcosa e soprattutto per realizzare un progetto mio. Nel 2016 ho fatto “I Cacciatori” con Pablo Trincia sul Nove ed è stata un’esperienza bellissima perché in due abbiamo costruito un format nuovo. Il mio desiderio è quindi di poter continuare a lavorare in questa direzione.

Che cosa hai provato quando hai saputo che la tua inchiesta era arrivata prima al Premio Di Donato e hai qualche suggerimento per chi parteciperà alla prossima edizione del concorso giornalistico? 
Ho provato tantissima felicità perché inchieste come la nostra non conquistano le prime pagine dei giornali, ma sono veramente faticose. Per questo il riconoscimento che arriva da un premio dà luce a questi lavori e restituisce un po’ di gioia per la fatica e per l’investimento fatti. A tutti quelli che parteciperanno a questo Premio, suggerisco di vincerlo o anche soltanto di partecipare. E intanto dico loro “grazie” perché  hanno scelto un tema difficile e questo significa che sono stati coraggiosi. Sono andata personalmente a ritirare il premio a Taranta Peligna e sono rimasta colpita dal numero elevato dei giovani partecipanti, cosa che mi ha fatto molto piacere. Consiglio a tutti i ragazzi di concorrere perché anche l’esperienza del viaggio a Taranta Peligna è assolutamente in sintonia con le difficoltà che si incontrano facendo i giornalisti. Quando, dopo una percorso a dir poco avventuroso, arrivi in quel paesino e ne vedi la bellezza, dici che ne è valsa la pena. Ed è un po’ la sintesi anche del nostro lavoro. 

Luce Tommasi