Il grido di denuncia di Lalla Quinti per far riaprire il caso del padre: “Dobbiamo fare squadra per ottenere giustizia”
Non si dà pace e ha ancora tanta rabbia in corpo Lalla Quinti. Sono passati quasi tre anni dal 24 maggio 2016, quando suo padre è morto durante un sopralluogo in un’azienda agricola del Valdarno. Aveva 73 anni Leonardo Quinti, un artigiano di Pozzo della Chiana, nel comune aretino di Foiano. Era un lavoratore vecchio stampo, di quelli che non si stancano mai: partiva alla mattina con la sua moto e aveva sempre con sé le scarpe antinfortunistiche. “Ancora non si è capito come è morto mio padre” sono le prime parole pronunciate da questa figlia combattiva, che vuole riaprire il caso dopo un’archiviazione a suo parere sommaria.
Qual è stata la dinamica dell’incidente in cui suo padre ha perso la vita?
Ci è stato detto che è morto cadendo da una scala, ma ancora non sappiamo quello che è successo realmente. Mio padre era un artigiano esperto e avrebbe dovuto mettere il rame nella cantina dove si era recato per un sopralluogo. Pensi che aveva lavorato in tutto il mondo! Quello che sappiamo è che il procedimento è stato chiuso con le parole “morte accidentale”. Nessuna autopsia, nessuna ricognizione sul cadavere, nessun accertamento medico-legale. Soltanto un foglio della dottoressa del 118 in cui ha dichiarato una caduta e un grave trauma cranico. Un giallo che resta ancora senza risposta.
Chi vi ha avvisato dell’accaduto?
Abbiamo ricevuto una telefonata dai Carabinieri che ci hanno detto che era successo un incidente e che era stata chiamata un’ambulanza. Ho dovuto fare non so quante telefonate per capire che mio padre era morto. Io, mio fratello e mia madre non ci volevamo credere e pensavamo che gli fosse capitato qualcosa in strada e non sul lavoro. Stando alle foto che siamo riusciti ad avere a pagamento dalla Procura, non c’è nessuna traccia della dinamica dell’incidente perché mio padre appare già sdraiato su una barella. Anche i Carabinieri hanno confermato la caduta accidentale. Oltretutto la scala, da cui sarebbe precipitato – e che non apparteneva a mio padre – non è risultata a norma di legge. E chi ci può confermare che la morte è avvenuta a causa della caduta? Ci sono troppe incongruenze.
Quali incongruenze?
Non c’è chiarezza neppure sui tempi, oltre che sulla dinamica del decesso. L’ambulanza che doveva soccorrere mio padre è arrivata con un’ora di ritardo a causa di un incidente. Inoltre mio padre avrebbe fatto le ultime telefonate dal suo cellulare fino a pochi minuti prima di morire. Il telefono, che sarebbe stato ritrovato sopra il casco della sua moto, mi è stato consegnato senza la scheda. E ancora, dopo un anno e mezzo, siamo venuti a sapere dall’unico testimone che mio padre era ancora vivo dopo l’incidente. Il suo corpo è stato ritrovato coperto di formiche. Ma da quanto tempo era lì?
La vicenda processuale a che punto è?
Vogliamo cercare di riaprire il caso che è stato archiviato. Il primo avvocato a cui ci eravamo affidati è deceduto, ma non aveva fatto alcuna opposizione dopo l’archiviazione. Da un mese ci siamo rivolti all’avvocato Mauro Dalla Chiesa dell’ANMIL. Penso che l’Associazione nazionale delle Vittime del Lavoro sia il soggetto più adatto a chiedere giustizia per una tragedia che non ha colpito soltanto mio padre, ma la nostra famiglia. Qui sono stati violati i diritti di tutti perché non sappiamo ancora come è morto e se poteva essere salvato.
Come è avvenuto Il suo incontro con l’ANMIL?
È avvenuto ad Arezzo che, essendo una città piccola, non aveva ancora sviluppato un’adeguata preparazione nei confronti di tematiche come queste. Mi sono subito resa conto che un incidente sul lavoro aveva creato inizialmente una sorta di amnesia in noi familiari e che la nostra vita da quel momento in poi era cambiata completamente. Aggiungo che è stato molto difficile accettare di essere offesi anche dallo Stato, che è l’istituzione che dovrebbe proteggere maggiormente i diritti dei cittadini. Mio padre era un lavoratore con 58 anni di contributi e aveva girato il mondo. Devo ringraziare l’ANMIL per non avermi più fatto sentire sola e in particolare Marinella De Maffutiis per essere riuscita a smorzare la mia rabbia e a darmi la forza di combattere.
Lei definisce, sul suo profilo Facebook, le vittime del lavoro come una grande famiglia. Come ha maturato questa convinzione?
Nasce dal fatto che sto cercando di prendere contatti con tutte le famiglie che hanno avuto vittime sul lavoro. In un recente convegno, che ho promosso ad Arezzo, ho raccolto le testimonianze di madri, figli, fratelli e sorelle di persone che hanno perso la vita per mettere insieme le forze e fare sentire le loro voci.
“Legati dallo stesso destino e dalla stessa beffa”: sono sempre parole sue. Vorrei che si soffermasse su che cosa intende per “beffa”
Intendo dire – e su questo mi impegnerò con tutte le mie forze – che di fronte ad un morto sul lavoro non si capisce mai bene quello che è accaduto. Noi familiari – io, mio fratello Emilio e nostra madre – continuiamo a sentirci abbandonati dallo Stato. Nessuna pensione d’oro, nessuna rendita INAIL. E pensare che il lavoro è citato più volte nella nostra Costituzione, a cominciare dall’articolo 1. Siamo forse figli di un dio minore?
Quanto è importante essere uniti per portare avanti le ragioni in difesa di chi non può più parlare?
Tutti insieme possiamo farcela. La sicurezza è cultura e il lavoro è dignità. E se i morti non possono più parlare, le loro famiglie sì. Un ruolo importante spetta all’ANMIL che può essere un punto di incontro tra tutte le persone che condividono questa causa. Mille e più morti all’anno segnano la vita di altrettante famiglie. Aggiungo che anche i sindacati devono chiarire il loro ruolo perché non siamo noi a doverli inseguire, ma dovrebbero essere loro a venire incontro a noi. Non si può parlare di vittime del lavoro senza le famiglie delle vittime del lavoro!
Quali iniziative ha in programma per contribuire a promuovere la cultura della sicurezza nel nostro paese?
La cultura della sicurezza sul lavoro, oltre ad essere un diritto, è un valore primario per chi lavora e per chi crea le condizioni di lavoro. Non basta aderire ad una giornata nazionale all’anno per promuovere la sicurezza perché questo è un tema che deve essere sostenuto tutti i giorni. In Italia manca l’informazione e non c’è una consapevolezza diffusa della gravità del problema. Faccio un appello a tutte le famiglie segnate da un lutto perché non si sentano più sole e si iscrivano all’ANMIL per confrontarsi e fissare obiettivi comuni. Dobbiamo smettere di creare associazioni e di agire ognuno per conto proprio, perché da soli non arriviamo da nessuna parte, uniti invece possiamo farcela.
L’ANMIL porta nelle scuole le testimonianze delle vittime del lavoro e delle loro famiglie per sensibilizzare le nuove generazioni su questo tema. Sarebbe disponibile a dare il suo contributo?
Mi piacerebbe dare il mio contributo ad Arezzo, dove c’è molta strada da fare sul piano della cultura della sicurezza. Mi sono sempre impegnata, anche prima della morte di mio padre, in difesa dei più deboli. Purtroppo spesso le persone sono abbandonate a se stesse e l’ignoranza è presente anche all’interno delle istituzioni da cui invece dovrebbero essere difese. Ma la responsabilità di questa situazione è prima di tutto di noi cittadini, che spesso rinunciamo a farci sentire per affermare i nostri diritti, a cominciare da quello alla vita. Lo Stato siamo noi.
Pubblicato il 19 aprile 2019