Fausto Bertinotti considera indispensabile il ruolo delle associazioni come l’ANMIL
Era il 2008 quando ho incontrato a Napoli Fausto Bertinotti. Lui era presidente della Camera, io lavoravo a Rainews24. Entrambi eravamo lì per la Giornata nazionale dell’ANMIL. E adesso, a dieci anni di distanza da quell’evento, eccoci di nuovo a ragionare di lavoro e di sicurezza. L’occasione arriva dal Premio Giornalistico “Pietro Di Donato” promosso dal Comune di Taranta Peligna, in collaborazione con l’ANMIL, di cui Bertinotti presiede la Giuria da sette anni. Scadrà infatti il prossimo 19 novembre il termine per la presentazione dei servizi in concorso e la proclamazione dei vincitori è già in calendario per il 25 novembre.
Perché ha deciso di associare il suo nome a questo premio e di sostenerlo?
La ragione è molto semplice. Anche per la mia lunga pratica sindacale ho sempre pensato che, tranne in alcuni momenti in cui un’emozione forte scuote il Paese – come nel caso di una tragedia sul lavoro – esista non dico una congiura del silenzio, ma una coltre di silenzio sul fenomeno dei morti sul lavoro. Fenomeno che viene persino “Illuminato” dal colore bianco, perché di morti bianche ancora oggi si parla, quasi a cancellare le colpe di un sistema che produce morti, a cominciare dalle responsabilità imprenditoriali. Per reagire a questa condizione, mi è sembrato che l’idea di un premio giornalistico – che il sindaco di Taranta Peligna, Marcello Di Martino, ha coraggiosamente messo in campo coinvolgendo svariate forme di comunicazione – potesse in qualche modo concorrere a bucare questa coltre di colpevole silenzio, rendendo partecipe della messa in luce del fenomeno chi, nel sistema dell’informazione, si fosse distinto con il suo contributo.
“Non sono morti bianche, ma nere” diceva il mio ex collega del Tg3, Santo della Volpe, scomparso nel 2015, che proprio tre anni prima aveva vinto il Premio Di Donato con un servizio sul caso Eternit. Aveva ragione e tanti giornalisti, come me, si sono corretti. Qualcosa è cambiato?
Dicevo poco fa che, malgrado lo sforzo generoso di alcuni, si continua ad usare questa definizione di morti bianche. La si usa perché è una coazione a ripetere, non perché ci sia un particolare dolo di chi la usa, ma perché fa parte di un senso comune che considera il rischio parte del lavoro, da cui discende l’uso del colore bianco per coprire quello che resta un omicidio.
Quanto i giornalisti possono fare per la sicurezza sul lavoro?
I giornalisti possono fare moltissimo. Naturalmente i primi a poter fare – lo dico per la mia esperienza – sono coloro che vivono nei luoghi di lavoro e quindi il sindacato, come sede di aggregazione dei lavoratori. Diceva un filosofo, che ha avuto un peso importante nella costruzione del movimento operaio, che l’opera di liberazione dei lavoratori non può che partire da loro stessi. E alla stessa stregua l’opera di prevenzione e di lotta contro la malattia e la morte sul lavoro non può che avere come protagonisti i lavoratori organizzati. Nei momenti alti del conflitto sociale, come negli anni ’70 a Torino e a Milano, si sono sperimentati modelli di sicurezza negli ambienti di lavoro, grazie ai quali si è realizzata una straordinaria messe di esperienze nel rapporto tra lavoratori e centri di ricerca, lavoratori e università, lavoratori e studiosi. Basti pensare a due nomi per tutti: Ivar Oddone a Torino e Giulio Maccacaro a Milano per parlare della costruzione di una nuova idea di ambiente e di organizzazione del lavoro. Ma tutti nella società dovrebbero sentirsi coinvolti. Se gli incidenti vengono considerati, come nei fatti accade, una piaga sociale che grida ancora al mondo l’intollerabilità delle condizioni di lavoro, tutte le istituzioni previste dalla Costituzione – che dice che la Repubblica è fondata sul lavoro – dovrebbero essere messe all’opera. In questo quadro l’informazione è molto importante perché ha un ruolo d’inchiesta e consente di conoscere quello che altrimenti non si potrebbe sapere.
Le nuove forme di lavoro, sempre più soggette a precarietà, non agevolano le forme di rappresentanza e di tutela dei lavoratori. Come ex sindacalista, che cosa pensa in proposito?
Dirò una cosa che so che è controvento, ma è frutto di un’esperienza. Non è vero che una determinata tecnologia, una determinata condizione di lavoro può essere o risolutiva o impedente. La catena di montaggio è stato un luogo dove si sono prodotte anche malattie e morte al punto che, nel modello ambientale a cui accennavo prima, si è parlato di un quarto gruppo di fattori di nocività per la monotonia e la ripetitività delle operazioni. Tuttavia, accanto alla linea di montaggio, esistevano altri luoghi, come le presse e la verniciatura, dove l’esposizione al rischio era determinata da uno dei primi tre fattori. Condizioni che venivano retribuite con una indennità di rischio con cui si ripagava questa esposizione. Quando ci fu la presa di coscienza, dopo gli anni ’68-’69, con il protagonismo di studenti ed operai – lo slogan era “la salute non si vende” -cominciò una pratica sociale, di cui il sindacato è stato tanta parte, per realizzare la prevenzione. Si è trattato di processi in precedenza sconosciuti. La linea di montaggio era il luogo di minore sindacalizzazione, di minore conflitto sociale e di più alta subalternità ed è diventato invece il luogo di maggiore costruzione del potere contrattuale dei lavoratori. Non c’è un determinismo tecnologico. Naturalmente so bene che non è semplice incidere oggi sulla precarietà, così come ieri sulla catena di montaggio perché, in una prima fase, la destrutturazione operata dalla nuova organizzazione del lavoro è più forte della capacità di reazione dei lavoratori. Ma è proprio a questo che bisogna porre mano e le prime lotte, ad esempio dei raider, sono indicative della possibilità, oltre che della necessità, di trovare nuove forme di tutela e di rivendicazione per questa nuova popolazione lavorativa. Naturalmente questo richiede che vengano ripensate anche la legislazione sul lavoro, le forme di organizzazione sindacale ed altro ancora. Però la cosa che mi sento di dire è che non ci si può rassegnare alla ineluttabilità, muovendo dalla convinzione che, poiché la popolazione lavorativa è dispersa, non si possa ricomporre. Esistono responsabilità nelle istituzioni, nella produzione legislativa e anche nel sindacato.
Tre morti sul lavoro ancora oggi sono tanti. Come fare per invertire questo trend?
Secondo me i morti, come le malattie professionali, sono inversamente proporzionali al livello del conflitto sociale e del potere contrattuale dei lavoratori. L’abbattimento dell’articolo 18 ha consentito di riprendere una pratica di licenziamenti, da parte delle imprese, che prima veniva impedita da una legislazione sul lavoro in cui i diritti dei lavoratori si erano andati affermando. Lo diceva Luciano Gallino con una formula riassuntiva che ha visto il rovesciamento del conflitto di classe in questi ultimi 25 anni: le conquiste ottenute dai lavoratori, in termini di dignità, retribuzione e potere nei confronti dell’impresa, hanno invece ceduto il posto ad una lotta condotta dall’alto in difesa del profitto e del mercato contro i lavoratori. E le legislazioni hanno assecondato questa tendenza regressiva. Ci sono macroscopiche responsabilità della politica che ha portato avanti una cultura, invece che pro labor, anti labor.
Un piccolo comune, quello di Taranta Peligna, per un grande premio. Crede che le istituzioni, a cominciare dalle comunità periferiche, possano contribuire alla sicurezza sul lavoro e a rendere più solida la nostra coscienza sociale?
Non possiamo non vedere che il Comune di Taranta Peligna è un’eccezione. Tanto più meritoria perché ci sta dicendo che si può cambiare. L’esperienza di tutti questi anni ha dato ragione al coraggio di questo Comune, che ha preso spunto dal romanzo di Pietro Di Donato, lo scrittore italo-americano di origini abruzzesi che, quasi 100 anni fa, pubblicò “Cristo tra i muratori”, in cui ha raccontato la drammatica storia di un emigrante italiano che, appena approdato negli Stati Uniti d’America, ha trovato la morte in un cantiere di lavoro. Un libro che ha spinto la sensibilità del Sindaco del Municipio di Taranta Peligna a produrre questa esperienza così significativa.
I fenomeni che caratterizzano il momento che stiamo vivendo sono preoccupanti, dalle migrazioni ai respingimenti. Quante sfide sociali dobbiamo affrontare?
Il lavoro – di cui ho parlato finora – è una spia generale della società. Quando il lavoro subisce i contraccolpi di una politica che non ne assume la centralità nella vita delle persone, tutto ciò che sta attorno si degrada. È evidente che siamo di fronte a fenomeni sociali che hanno una loro autonomia, come i grandi processi migratori. Quello che voglio dire è tuttavia che ciò che si può conquistare sul terreno del lavoro, cioè la dignità della persona, può essere esteso a tutti. Se c’è un diritto alla dignità di chi lavora, come ha avuto modo di dire il Pontefice, allora questa è indivisibile e non può che riguardare alla stessa stregua l’immigrato, il nero, l’escluso, l’emarginato e tutti coloro che questa società riduce a scarto.
Nel mondo del lavoro, soprattutto quando si parla di vittime, di giustizia ce n’è ancora poca. È d’accordo?
Quando negli anni ’70 il diritto del lavoro è stato protagonista di una rivoluzione, abbiamo assistito a sentenze importanti che hanno fatto scuola, attraverso le quali la Magistratura, che fino a qualche decennio prima era una sorta di porto delle nebbie, ha portato alla luce responsabilità sociali e imprenditoriali e ha fatto la sua parte. Quando nella società questa onda generale si infrange, la giustizia rischia di tornare sui vecchi cardini.
Cosa pensa dell’ANMIL? Crede che questa associazione, che sostiene i diritti delle persone infortunate, possa incidere sul cambiamento delle coscienze per ridare quella dignità ai lavoratori di cui lei ha parlato?
Assolutamente sì. Io penso che, specie in momenti come questi, in cui il rischio di regressione civile e culturale è molto forte, la presenza di testimoni attivi ovunque collocati nella società, dalle amministrazioni alle associazioni, sia il bene più prezioso di cui disponiamo. Per questo il lavoro delle associazioni, se è sempre utile, oggi è indispensabile.
La Commissione del Premio “Pietro Di Donato”, che lei presiede, quali criteri seguirà per la valutazione dei servizi in concorso?
Quelli di sempre. Un rispetto per le diverse culture, i diversi orientamenti politici che emergono nei lavori e il tentativo di favorire la messa in luce di fenomeni che, a partire dall’esperienza di una persona o di una comunità, possano essere interpretati come un segno dei tempi e quindi in grado di richiamare l’attenzione di tutti i soggetti che affrontano il problema degli incidenti sul lavoro.
– Scrive Pietro Di Donato: “Non ho mai progettato di essere uno scrittore. Sono un missionario, sono un sognatore, sono un visionario, un rivoluzionario, un idealista”.
Come commenta questa riflessione?
È una buonissima definizione e di cui abbiamo ancora tanto bisogno.