Disinformazione e intolleranza gli atteggiamenti più diffusi. Penalizzate soprattutto le donne
Il sociologo Stefano Palumbo ha recentemente condotto, per conto dell’ANMIL, una breve ricognizione sugli studi statistici e demoscopici dedicati al tema della disabilità. Ripercorriamo in dieci domande la ricerca, illustrata in anteprima lo scorso 14 maggio, in occasione della presentazione, a Napoli, del 1° Concorso Nazionale “Moda, design e disabilità: uno stile unico per ogni donna”.
– Come si è svolta questa ricerca?
È stata una semplice esplorazione sul tema: ho cercato gli studi più recenti disponibili su Internet e ne ho analizzato le indicazioni. Molte delle informazioni raccolte sono state prodotte dall’Istat, ma ho trovato anche ricerche di altri soggetti di vario tipo, fra cui una ricerca abbastanza articolata, condotta dal Censis per la Serono. Il problema è che, per disporre di un sufficiente ventaglio di informazioni, sono dovuto risalire indietro anche di 12 anni, ed è chiaro che alcune di quelle informazioni risentono del tempo passato.
– C’è una prima riflessione sul fatto che molti dati non siano recenti?
La mia prima considerazione non può che essere il rammarico per la scarsa propensione del nostro Paese a produrre informazione sistematica sulla condizione dei disabili e, questione non banale, su come le altre persone si rapportano a chi si trova in tale condizione.
– Iniziamo dalle condizioni oggettive. Quali sono le cose più importanti da segnalare su questo versante?
Il dato di partenza è inevitabilmente quello dell’età: due terzi dei disabili gravi sono molto anziani: oltre i 75 anni. Essendo l’Italia un paese che invecchia più di gran parte degli altri, anche la presenza dei disabili gravi è in crescita rapida: l’Istat segnala che erano 2,6 milioni nel 2005, 2,9 milioni nel 2010 e quasi 3,1 milioni nel 2013. I disabili di età inferiore a 75 anni, invece, registrano numeri abbastanza stabili: erano 988mila nel 2005 e 1 milione e 18mila nel 2013. Inoltre, fra i disabili sono largamente prevalenti le donne (due terzi, anche in questo caso), ma questo dato dipende in larga misura dal precedente, perché le donne sono più longeve degli uomini e quindi ve ne sono molte di più oltre i 75 anni.
– A parte, ovviamente, le condizioni di salute peggiori, quali sono i principali fattori di disagio dei disabili italiani?
Alcune indicazioni ci vengono dalla stessa indagine Istat relativa al 2013. Innanzitutto (cfr. Grafico 1), il 46% dei disabili gravi soffre di problemi di confinamento, un problema che non è solo dell’ampia fascia anziana: è un problema che denuncia anche il 33% dei disabili che hanno fra 15 e 44 anni. Una situazione abbastanza simile, ma peggiore, c’è per le limitazioni di movimento (67% dei disabili gravi, 40% nella fascia più giovane) e per l’autonomia nelle attività della vita quotidiana (83% e 56%). Molto grave, ma senza distinzioni d’età, è la situazione relativa alla possibilità di comunicare.
– In queste condizioni, è difficile immaginare che i disabili abbiano opportunità di restare inseriti nella vita sociale, a partire dal lavoro?
Certo. Il tasso di occupazione è un po’ aumentato, nel corso degli anni, così come la propensione dei disabili a cercare un lavoro. Tuttavia, fra il 2009 e il 2013, si è passati solo dal 18% al 20% di occupati e dal 5% all’11% di disabili in cerca di lavoro. Complessivamente, dunque, gli attivi nella fascia 15-64 anni sono il 31%, a fronte del 69% della popolazione complessiva. Va comunque considerato che il confronto europeo (che include tutti i disabili, anche quelli lievi) non ci vede molto mal messi: Eurostat segnala che abbiamo il 46% di occupati, a fronte di una media Ue del 47%. Paradossalmente, il fatto che il nostro tasso generale di occupazione sia più basso della media europea fa’ sì che il divario per i nostri disabili sia minore della media continentale (13% a fronte del 19%). La nostra situazione è migliore di quella spagnola (44% di disabili occupati), belga (41%), olandese (43%) e soprattutto irlandese (30%), anche se nettamente peggiore di quella svedese (66%), finlandese (61%) e austriaca (60%).
– Veniamo all’altro tema della sua indagine: la percezione che abbiamo dei disabili e gli atteggiamenti che abbiamo nei loro confronti. I dati che lei ha presentato a Napoli non erano granché confortanti, in tal senso.
Ho trovato dati molto preoccupanti, in effetti, anche se non tutti sono molto recenti. Sulla conoscenza della disabilità fornisce molte indicazioni la ricerca del Censis, che risale al 2010. Alcune cose potrebbero essere cambiate, ma personalmente non credo di molto. Il Censis ha verificato, ad esempio, che il 63% degli italiani, quando pensa alla disabilità, se la immagina soprattutto motoria – la sedia a rotelle, sostanzialmente –, mentre quella sensoriale è citata appena dal 3% degli intervistati. Nella realtà le disabilità motorie sono tante (47%), ma molte sono quelle sensoriali (23%); inoltre, la limitazione prevalente (67%) è quelle funzionale: persone che camminano, vedono, parlano e sentono, ma non possono svolgere adeguatamente le attività della vita quotidiana che per ognuno di noi sono scontate. Inoltre, la distribuzione per età che citavo in apertura (due terzi dei disabili sono molto anziani) è poco percepita (Cfr. Grafico 2). Solo il 28% degli italiani ha chiaro questo fatto, mentre uno su cinque è convinto che i disabili siano prevalentemente bambini e giovani e il 30% è convinto che la distribuzione per età della disabilità sia equilibrata. Paradossalmente, nemmeno i diretti interessati (gli ultra-sessantacinquenni) hanno molto chiara la connessione fra età e disabilità.
– Quali sono le conseguenze di questa debole informazione?
Gli italiani provano sentimenti genericamente positivi e solidali verso i disabili, ma quando entrano in contatto con loro provano spesso disagio, a volte ansia. Solo il 51% dichiara di sentirsi tranquillo, perché è abituato alla vicinanza. Tuttavia, il 54% è impaurito dalla prospettiva di potersi trovare in quella condizione, o che capiti ad un proprio familiare. Inoltre, più di un terzo degli italiani ha paura di non sapersi comportare bene vicino ad un disabile, di ferirlo con le proprie parole o i propri atteggiamenti. Certo, coloro che si dicono indifferenti al problema sono pochi (il 15%), ma comunque emerge una sfera di disagio e distanza di proporzioni molto rilevanti. Va considerato che in un’altra indagine, svolta nel 2015 da Vox, l’Osservatorio Italiano sui Diritti, in collaborazione con tre Università (di Milano, Roma e Bari), il 25% dei rispondenti ha dichiarato di non aver mai avuto rapporti diretti con un disabile.
– La distanza sociale e la disinformazione possono essere una base per comportamenti ostili o anche solo intolleranti?
Certo. Una rilevazione svolta da Telefono Azzurro con 5.000 interviste nella scuola secondaria di primo e secondo grado nel 2013, ad esempio, ha posto in evidenza che molte delle vittime di bullismo vengono prese di mira per le proprie difficoltà fisiche o disabilità. Qualche anno fa, un’indagine Istat suscitò giustamente molto clamore perché rivelò che quasi un terzo (31%) delle donne italiane era stato oggetto di violenza almeno una volta nel corso della propria vita. Ma fra le donne disabili questa percentuale saliva al 37%. E se fra le italiane nel loro insieme i tentativi di stupro riguardavano il 5%, fra le disabili questa quota era del 10%, giusto il doppio.
– I social network sono un altro ambito in cui l’ostilità e il bullismo verso i disabili possono esprimersi in forma molto virulenta?
È così, anche se la mia opinione è che i social si limitino a rivelare sentimenti ostili che si sono formati nelle relazioni sociali tradizionali e che la comunicazione in rete li renda molto visibili. La ricerca condotta da Vox, che prima citavo, ha analizzato approfonditamente l’espressione di odio e intolleranza su Twitter, tracciando una mappa nazionale (cfr. figura allegata) relativa alla misoginia, al razzismo, all’antisemitismo, all’omofobia e all’intolleranza verso la disabilità. La cosa impressionante di questa rilevazione è che l’intensità delle espressioni contro la disabilità è seconda solo all’intolleranza verso le donne, ben più marcata delle altre tre forme prese in considerazione. L’uso di termini come “spastico”, “mongoloide”, “storpio”, “cerebroleso”, per insultare e aggredire, è diffuso un po’ in tutte le zone d’Italia, sebbene con una certa concentrazione in alcune aree (Lombardia, Campania e fra Abruzzo e Puglia).
– Alcune delle informazioni, anche molto allarmanti, che lei ha rintracciato in rete non sono, come abbiamo già evidenziato, molto recenti. Non è un sintomo di disinteresse del nostro sistema sociale verso la condizione e la qualità di vita dei disabili?
Pur ricordando che queste sono le informazioni disponibili pubblicamente su Internet, e non si può escludere che siano state condotte ma non rese pubbliche altre indagini, temo che sia come lei dice. Credo che sia i dati di condizione (limitazioni, lavoro, barriere, etc.), sia quelli di relazione e percezione (informazione, sentimenti, comportamenti concreti) dovrebbero essere oggetto di un monitoraggio sistematico. I disabili sono oggi più di quattro milioni e quelli gravi, come dicevamo, hanno superato i tre milioni. Sappiamo che in futuro saranno probabilmente di più, perché l’invecchiamento rappresenta una spinta alla crescita del problema. La consapevolezza del problema stesso, che ci può venire solo dalla produzione di informazioni dettagliate e aggiornate e dalla loro massima diffusione – fra gli addetti ai lavori e fra tutti gli italiani – è una condizione ineludibile per intervenire nel miglioramento delle condizioni di vita dei disabili.