Intervista a Giulio Cavalli: autore, attore, scrittore politicamente impegnato

La sicurezza dei lavoratori è il termometro di una democrazia e la nostra è sicuramente molto malata.

A lui piace definirsi un Arlecchino perché sa fare tante cose. Autore, attore, scrittore, politicamente impegnato. Giulio Cavalli dice di sé: “Racconto storie, sul palcoscenico, su carta e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello ‘scassaminchia’ ho deciso di aggiungerlo alle referenze”. E infatti dal 2006 vive sotto protezione. Si intitola “Ma ve li ricordate?” il monologo sugli incidenti sul lavoro che ha scritto in occasione del seminario “Nuovi orizzonti per un cantiere sicuro”, datato Reggio Emilia 2017. Tra i protagonisti delle storie che ha raccontato c’è anche quella del presidente della Fondazione ANMIL “Sosteniamoli subito” Bruno Galvani, che non era neppure maggiorenne quando un muletto di un cantiere gli ha rubato l’uso delle gambe, costringendolo per il resto della vita su una sedia a rotelle, ma insieme alla sua ce ne sono molte altre di soci ANMIL e tutte molto toccanti. E da questi eroi del quotidiano comincia il racconto-intervista che Giulio Cavalli ci ha rilasciato in una delle sue giornate senza inizio e senza fine. 

– Tu hai scelto di raccontare tante storie di vittime del lavoro. Perché hai sentito l’esigenza di farlo?
Perché ho voluto parlare dei veri diseredati dell’epoca moderna, di quelli che in nome della precarizzazione del lavoro e di un capitalismo – che non si è mai fermato negli ultimi anni a riflettere sull’etica – si ritrovano a lavorare in condizioni non solo sfavorevoli dal punto di vista economico, se non addirittura indegne, ma anche assolutamente insicure. E questa è una cosa che mi ha sempre colpito. In quest’ultimo periodo facciamo un gran parlare degli stranieri, ma la moria sul lavoro colpisce indifferentemente italiani, che sono la stragrande maggioranza, e stranieri. E soprattutto colpisce persone che molto spesso sono consapevoli di rischiare la morte, ma sanno anche che questo è l’unico posto accessibile che hanno per stare in società, seppure ai margini. Trovo che il termometro di una democrazia sia la sicurezza dei propri lavoratori. E infatti la nostra è una democrazia molto malata. 

– Come si fa a raggiungere i giovani su queste tematiche?
Innanzitutto bisogna avere il coraggio di usare i loro strumenti, senza demonizzarli. Io non sono assolutamente d’accordo con i colleghi che molto spesso demonizzano i social, che non sono nient’altro che luoghi fatti di persone, che magari hanno comportamenti che non sono quelli a cui siamo abituati, ma che sono comunque comportamenti di persone. Quindi bisogna avere il coraggio di andare nei luoghi frequentati dai ragazzi. Quando noi facciamo un convegno, i giovani non li intercettiamo. Ormai con un convegno a fatica intercettiamo anche gli esperti, che pure sono ormai diventati un’altra classe odiata. Spesso un video sui social arriva molto di più di paginate di studio. Poi è logico che i social non devono bastare a se stessi, ma devono far venire voglia di approfondire e di capire che l’argomento è molto complesso e devono essere la spinta per avvicinarsi alla complessità. E poi c’è una cosa su cui insisto sempre, che è uno dei grossi problemi di quando si parla di lavoro in Italia, da tutte le parti, sia da destra che da sinistra: il fatto cioè di non voler apparire popolari, nell’accezione più pulita del termine, nel senso gramsciano dell’arrivare a tutti. Questo è un giochetto che innanzitutto rende poco interessante il tema, mentre una delle nostre capacità dovrebbe essere quella di far venire l’acquolina in bocca proprio per quegli argomenti che sono fuori dall’agenda politica e fare in modo che invece entrino in questa agenda. E in secondo luogo perché, dietro la morte di un lavoratore, ci sono sempre delle storie – e lo mettiamo tra virgolette – drammaticamente bellissime e che meritano di essere raccontate.

– Tu hai scritto uno splendido monologo che parla di storie di vittime del lavoro e che si intitola “Ma ve li ricordate?”. Qual è la chiave che rende efficaci tutti questi racconti? 
Per raccontare quanto può essere dolorosa la morte di un lavoratore, basta raccontare di lui da vivo, della sua famiglia, degli affetti che ha lasciato, quanto credeva in quello che faceva, quanto era disposto a cedere in termini di sicurezza. Lì dentro c’è tutto. C’è politica, c’è normativa e tanto altro. Per fare questo occorre dividere gli spazi: da una parte l’aspetto burocratico, che lasciamo ovviamente a chi se ne occupa; dall’altra il lavoro, come ad esempio il mio, che è quello di rendere popolare ciò che solitamente è considerato argomento ostile. Ma se ci pensiamo, siamo un paese che di immigrazione non ne sapeva e non ne sa ancora nulla, mentre oggi sono tutti esperti di questo tema.  Ribadisco che, dietro ogni storia, c’è una persona. Del resto, in Italia, uno su quattro non capisce quello che legge. Basta fare un giro su Facebook per rendersene conto. Se noi riuscissimo a trasformare l’indignazione, che di per sé può essere convogliata positivamente su temi come quello della sicurezza sul lavoro, questo sarebbe il mio sogno: vedere che tutti i partiti devono per forza dare una svolta su questo tema perché ci sono milioni di persone che lo chiedono. 

– A proposito di storie, l’ANMIL da oltre vent’anni porta i suoi testimonial nelle scuole ed è reduce da un evento all’Università La Sapienza di Roma per la premiazione del concorso “Primi in sicurezza” dedicato a ragazzi di tutte le età. Poiché anche tu sei sempre presente nelle scuole, credi che questo sia un modo per catturare l’attenzione dei giovani? 
Certo. Dobbiamo fare un po’ di brigatismo culturale.

– Tu stesso ti definisci un Arlecchino perché fai tante cose. Quanto è importante la cultura, nelle sue varie espressioni, per acquisire consapevolezze e non sottostare alle prepotenze, sul piano della sicurezza e non solo?
È fondamentale, ma noi operatori culturali dobbiamo riuscire a far intravedere, in quello che facciamo, le ricadute reali. Mi spiego. Lo spettacolo teatrale è importante non in quanto fine a se stesso, ma se fa vedere qualcosa che noi pensavamo di conoscere in un certo modo e invece non è in quel modo. Se riusciamo cioè a smontare la narrazione imperante, il teatro – così come il giornalismo – è lo strumento migliore, perché tu hai di fronte gente che è disposta a leggerti e ad ascoltarti e che, per il fatto che ti viene a cercare, ha un’attenzione maggiore. Purtroppo noi siamo un paese che ultimamente – e anche qui mi duole dire da tutte le parti politiche – ha demonizzato la cultura perché ha preferito il messaggio semplicistico che ragiona per slogan e per banalizzazioni, rinunciando un po’ al suo ruolo pedagogico. Non dimentichiamo che questo era il ruolo delle istituzioni e della politica che, secondo me, oggi è la più grande propagatrice di fake news.

– Tu, come molti giornalisti, hai bocciato la parola morti bianche, che di bianco hanno ben poco. Perché? 
Perché non sopporto l’uso strumentale che si fa del linguaggio, soprattutto nelle guerre, ad esempio con le frasi “bombe intelligenti” o “danni collaterali”. E questo vale anche per le “morti bianche” che mi sembrano un sopruso verso le vittime. Mentre queste morti sono rosse, rossissime e lo stesso accade per gli infortunati che, anche se non sono morti, spesso hanno subito gravi menomazioni, vitali e croniche. Secondo me rendere dolce un fenomeno, che invece deve essere assolutamente affrontato in tutta la sua crudeltà e spinosità, è un modo molto furbo per cercare di smussare l’emergenza. E invece stiamo parlando di morti vere con una costante indiscutibile e cioè che ogni morto è una sconfitta. Noi dobbiamo riuscire a costruire un paese in cui la morte sul lavoro non avviene. Trovo patetico e ridicolo che invece si parli di morti sul lavoro solo quando i morti ci sono. Nel giorno in cui parleremo di morti sul lavoro anche in quella settimana in cui non ci saranno morti – e mi auguro che accada il prima possibile, anche se nutro dei dubbi – allora faremo veramente qualcosa di buono, mentre ora ci limitiamo quasi sempre a mostrare un po’ di sdegno, un po’ di contrizione e a dire che ci dispiace.

– A chi attribuisce le maggiori responsabilità dei morti sul lavoro? 
È un fenomeno facilmente valutabile, nel senso che ci sono i numeri e con i numeri non si può sbagliare. E se i numeri dicono che i morti aumentano, significa che le politiche e i controlli e tutto il resto sono sbagliati. Non ci sono altre spiegazioni. Il fatto che ogni anno noi assistiamo ad una tragedia silenziosa, che sembra quasi non preoccuparci, è assolutamente svilente anche per il giornalismo, che non si occupa di sicurezza sul lavoro se non quando ci sono i morti. Grande colpa secondo me ce l’hanno i media. Assolutamente. Anche perché è uno dei campi in cui è la prevenzione che ci interessa: una persona può salvarsi se vengono rispettati i meccanismi democratici fatti di regole, di controlli, di responsabilità molto spesso del padrone, chiamiamolo così. Ma il problema è anche un altro. Noi siamo un paese in cui la sicurezza sul lavoro è considerata un costo e anche questa è un’anomalia molto italiana. Mentre nel mondo si cerca di affrontare il tema del benessere dei lavoratori, noi non solo non riusciamo ad occuparcene, ma non riusciamo ad occuparci neppure della loro messa in sicurezza. È come se costruissimo case brutte, sapendo che avranno anche fondamenta cedevoli.

– In questa società tu dici spesso che viene negato il diritto alla fragilità. E le vittime del lavoro sono fragili per antonomasia. Come si fa a costruire un’altra scala di valori, in cui giornalisti, narratori, attori riescano a far comprendere che esiste anche un mondo di persone come queste?
Provando a raccontare che ci sono persone che non ce la fanno a stare dietro ai ritmi forsennati della società e ai ritmi ancora più forsennati del lavoro. E che, non per questo, devono essere dei diseredati. Ci sono persone che hanno dei talenti, ma magari non hanno le qualità per esprimerli. Siamo noi che dobbiamo decidere. Vogliamo un mondo in cui lavorino solo i forti, i veloci, i bravi o vogliamo un mondo che sia veramente inclusivo? Io penso che la seconda ipotesi sia il minimo costituzionale. La nostra Costituzione dice infatti che siamo una repubblica fondata sul lavoro e quindi una repubblica fondata sul fatto che ognuno deve trovare il proprio posto all’interno della società. Ci siamo invece abituati a pensare che esistano delle persone che sono un peso e che quindi sia quasi meglio non farle ‘entrare’ nella società. A me questa cosa fa molta paura perché adesso sta accadendo con gli stranieri, ma alla lunga accadrà anche con gli italiani. Ne sono certo. Il problema è che prima si dirà che non vanno bene gli stranieri e poi si dirà che ci sono italiani scansafatiche e poi che ci sono italiani che non sono in condizioni di lavorare e avanti così. Tutti gli strumenti, come ora il reddito di cittadinanza, sono utili se portano all’inclusione e non alla sovvenzione o allo spirito crocerossino. Molto spesso una persona lavora non per lo stipendio, ma per la dignità, per avere il coraggio di guardare la sera in faccia i propri figli e pensare: “Ciò che sto facendo è giusto per la mia famiglia e io ho il mio ruolo all’interno della società”. Non è solo una questione di stipendio. È la questione della realizzazione dell’uomo, che è un grande tema: io non dico che debba esistere in Italia un partito laburista, ma un partito che affronti questo tema ci dovrebbe essere nel nostro paese, prima o poi. E invece purtroppo non c’è. 

– Spesso le vittime del lavoro, che dopo un incidente non hanno più le stesse capacità che avevano prima, diventano persone isolate. Come leggi questa realtà? 
Sono persone considerate fallaci, fallimentari, sono persone che in fondo ci fanno paura perché dimostrano quanto abbiamo sbagliato noi. Il reinserimento nel mondo del lavoro degli infortunati, sia anche in ruoli diversi e molto più blandi, in realtà secondo me ha un enorme significato sociale perché vuol dire: “Guarda, io società cambio per metterti nelle condizioni di ripagarti del danno che ti ho fatto subire”. E invece molto spesso, se ci pensiamo, la vittima sul lavoro è qualcuno da nascondere agli occhi della gente, così come si nasconde l’errore sotto il tappeto.

– Per concludere, tu hai trascorso buona parte della vita a denunciare e ad andare contro i poteri forti al punto che vivi ancora sotto scorta. Essere considerato scomodo quanto ti costa? 
Vivere le conseguenze di quello che faccio mi interessa molto poco. Sarà proprio perché affronto dei temi in cui vedo persone disperatamente messe peggio di me! E quindi non mi permetterò mai di lamentarmi di eventuali dispositivi di sicurezza quando trovo invece persone abbandonate dallo Stato contro la criminalità organizzata o vittime del lavoro. L’affrontare temi scomodi in un paese normale dovrebbe essere il punto primo di chiunque si occupi di racconto, che sia giornalismo, letteratura o teatro. Ma questo modo di fare evidentemente va molto poco di moda. Non sono io estremamente coraggioso, diciamo piuttosto che sono estremamente raro. E quindi penso di brillare più per la pavidità degli altri che per il mio coraggio.  

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