Una vita in musica per costruire identità e sviluppare il suo impegno contro i falsi miti
Lo chiamo di domenica mattina alle 9 in punto, ma lui è già in giro dalle 8. Lo trovo a Marina di Lizzano, vicino Taranto, dove è nato e dove torna tutte le volte che può, anche se ha casa a Milano e vive a Verbania, sul lago Maggiore. “È il mio paesello” mi dice Mimmo Cavallo, il cantautore che ha attraversato quasi mezzo secolo di musica italiana e che è salito sul palco del Disability Pride di Roma, nel luglio scorso, insieme all’amico fraterno Stefano De Sando, attore, doppiatore, cantautore anche lui. “Nel mio ultimo disco – Dalla parte delle bestie – c’è un suo intervento in voce” aggiunge, ricordando i tempi in cui Stefano andava in studio a sentire i suoi provini. “Erano i tempi – continua – in cui c’era sempre una donnina in un angolo con un cagnolino e io non capivo chi era. Ma quando l’ho capito, andai da lei e mi inginocchiai”. Quella donnina era Mia Martini, che poi fece tutti i cori dei pezzi del suo primo disco “Siamo meridionali”. È un mare di ricordi quello in cui si tuffa Mimmo Cavallo, che mi parla senza sosta per un’ora intera, prima di andare a tuffarsi nel mare vero di Lizzano. Ha appena riabbracciato, la sera prima, Fiorella Mannoia a Soverato, in Calabria, dove lei ha tenuto un concerto. Il tempo di lasciarle dei brani nuovi per il suo prossimo cd e poi via di corsa verso Taranto, dove lo attendevano ad una cena. Ascolto la sua fiaba e non lo interrompo per non sciuparla. E adesso, mentre provo a racchiuderla in poche domande, scelgo di riportare le sue parole così come sono, per non disperdere quell’entusiasmo che le attraversa e che arriva dritto al cuore.
– Perché hai accettato di partecipare al Disability Pride e chi ti ha contattato?
Mi sembra che sia stata Marinella (De Maffutiis, ndr) dell’ANMIL, con cui ho già fatto delle cose, non ho memoria quando. Essendo un cantautore “identitario”, nel senso che costruisco identità, sono spesso chiamato pro questo o pro quell’altro. Da una parte mi gratifica molto questo fatto, anche se, dal punto di vista economico, ha i suoi svantaggi. Però riesco a sopravvivere con la musica e mi va bene così. C’è un ex presidente uruguaiano, che io adoro e che si chiama Pepe Mujica (lui è dimesso, ma non si è dimesso il suo pensiero), che sostiene che il mondo ha bisogno di “meno”, non di “più”, per cui si può vivere bene con poche cose. E questa non è retorica. Io poi ho la fortuna di essere nato in un posto mitico, Marina di Lizzano, per cui – quando vedo che le cose non vanno bene – ritorno nel mio utero mediterraneo e lascio agli altri le incombenze dell’affannosità della vita.
– Che cosa hai cantato sul palco della manifestazione e perché questa scelta?
Ho cantato “Invincibile”, una poesia di un poeta inglese, William Ernest Hanley, del 1888. Un testo che ho trovato anni fa e che parla di una persona che sta su un letto di ospedale e ha tutti i mali del mondo, ma che riesce a scrivere questi versi di una bellezza struggente e che parlano dell’invincibile e di chi, nonostante abbia perso, riesce a vedere sempre più vicina la vittoria e a rialzarsi. E su questi versi dell’invictus ho scritto un pezzo e il mio amico Pino Aprile, quando lo ha sentito, mi ha detto: “Hai fatto un capolavoro”. Anche io ne sono convinto. E dal momento che noi siamo, come si dice, cantautori di nicchia, l’ho voluto riproporre al Disabiity Pride perché mi sembrava indicato per l’occasione. È una botta di speranza per tutti quelli che hanno difficoltà e lottano quotidianamente per la vita. Io ho seguito esattamente il testo. Quando tu prendi una poesia e ci costruisci sopra la musica, non è detto che riesca proprio bene. Ma non ho cambiato niente. Il senso è che, nonostante questo abisso, io sono il padrone del mio destino, io sono il capitano della mia anima. Questo è il messaggio struggente. E poi l’invitto, l’invincibile, fa parte del senso della musica che faccio io: l’ultimo disco si chiama “Dalla parte delle bestie”, che sono appunto i perdenti, quelli che lottano continuamente e che portano avanti i loro discorsi. E io, bene o male, ho incominciato con questa croce dell’invitto perché, all’inizio della mia carriera, feci quel “Siamo meridionali”, che era un racconto diverso. Sin da bambino, quando a undici anni sono arrivato a Torino, ho subito quelle piccole manifestazioni di intolleranza, di superficialità, che io non chiamo razzismo, perché ho sempre ironizzato su queste cose. Quando sono arrivato al Nord, venivo da un paradiso terrestre, almeno dal mio punto di vista. E invece, quando sono arrivato “su”, qualcuno mi ha detto che “ero meno”. E questa cosa l’ho vissuta male per cui mi sono chiesto: “Ma come? Vengo da questo utero che mi appartiene, da questo mondo meraviglioso e mi devo sentire meno, anche nel linguaggio”. Io, ad esempio, ero abituato a dire una espressione di meraviglia, che da noi non è “oh”, ma “nah” e venivo deriso dai miei compagni di scuola, che mi prendevano per i fondelli. Poi ho capito che il nostro “nah” vuol dire “ecco guarda” e deriva dal greco. Se lo avessi saputo prima, mi sarei difeso. Invece ho dovuto sentirmi “meno”, ma poi mi sono acculturato grazie alla mia musica.
– A proposito di linguaggi, che effetto ti ha fatto vedere la tua canzone tradotta nella Lingua dei Segni?
È stato bello perché, nella vita, a volte ci si dimentica di alcune cose. Io l’ho scoperto con gli anni. Stai bene, va tutto bene e poi, quando ci sono i sintomi di un malessere, ti rendi conto che la vita ha tanti altri aspetti che uno non coglie. Ci sono tante persone con handicap, che hanno bisogno di questo e di quello e mai uno pensa – quando è giovane – che tra il pubblico c’è gente che ha bisogno di un altro linguaggio. È stata una cosa bellissima.
– Tu sei sempre stato uno spirito libero e hai dato voce a realtà scomode che prima non avevano trovato spazio nella normale discografia. Ti è costata questa scelta di cantautore atipico, fuori dal coro?
Devo smentire questa cosa. Io credo di essere stato il cantautore che ha avuto più di tutti. Certamente il fatto di aver rifiutato Sanremo, all’inizio della mia carriera, ha influito molto sugli sviluppi futuri del mio percorso perché i miei produttori – non ero io a decidere – non si resero conto che le trasmissioni culturali che ho fatto, importantissime, come Mister Fantasy e Variety, erano viste da 600.000 persone, mentre Sanremo da 20 milioni. A quei tempi non si conoscevano Mister Audience o la Signora Share e quello fu un errore, un primo errore di valutazione di mercato, di imprinting, di inizio di un certo percorso. Però io sono stato l’unico cantautore che ha avuto, per l’uscita del suo disco “Siamo meridionali”, 1500 valigette di cartone, volute dalla CGD (Compagnia Generale del Disco), con la scritta stampata in dialetto “Dove arrivi metti un segno”. Queste valigette – che contenevano, fra l’altro, vino, fichi secchi, pasta Voiello – furono inviate a radio, giornalisti, addetti ai lavori. E tutti si chiedevano: “Ma chi è Mimmo Cavallo?”. Fecero una promozione abnorme, spropositata nei miei confronti, sbagliando però la promozione vera, quella di andare a Sanremo, per cui quando arrivavo nelle piazze la gente chiedeva chi fosse il cantante. Fu una scelta sbagliata della produzione, non certo mia. Lo posso dire adesso che ho capito come funziona il mercato. Vasco Rossi ha avuto successo quando è andato a Sanremo, Zucchero uguale. Dopo tu aggiusti il tiro, però dopo che ti conoscono tutti. Soltanto Mina riesce a incuriosire, pur essendo sparita, ma era già Mina quando è sparita.
– Tu hai scritto tante canzoni importanti per autori famosi. Ce n’è una a cui sei legato e che ti rappresenta in modo particolare?
Ho scritto per la Mannoia, Zucchero, Morandi. No, i miei pezzi sono tutti figli miei. Forse il periodo più bello è stato quello con Mia Martini, ma è stato bello anche quello con Fiorella Mannoia e, quando ci siamo rivisti, ci siamo abbracciati. Era almeno un anno che non la vedevo, ma fra noi c’è quell’affetto che resta immutato perché eravamo veramente fratello e sorella all’inizio della sua carriera. Ricordo che c’era questa ragazza, che hanno portato a casa di Coggio, che era il nostro produttore, e ci siamo chiesti che pezzo farle fare. Lei all’epoca faceva la “cascatrice” nei film e girava il mondo con il suo ex marito. Io mi inventai con un mio amico “Caffè nero bollente” e lei andò a Sanremo tutta agguerrita. E ha funzionato, ma la cosa che funziona di Fiorella sono sicuramente la sua professionalità e il timbro della sua voce, che è bello caldo, che arriva al cuore. Anche le femministe presero delle frasi di questa canzone, che parla di una donna che, un pomeriggio, si fa un caffè nero bollente e si vuole bastare da sola. Ed ecco che, in questa metafora della solitudine, ritorna l’invictus.
– Tu fai parte della stessa squadra discografica di Mariella Nava, Suoni dall’Italia. Che cosa vi accomuna in questa scelta?
Io e Mariella Nava siamo legatissimi da sempre. La cassetta con le canzoni di questa ragazza me la diedero, in una radio, a Taranto e la portai a Coggio e gli piacque. Così chiesi a Mariella di incontrarlo e nacque tutto da lì. Lei venne a Roma e Coggio cominciò a lavorare con Mariella. Sono anche responsabile del suo inizio.
– Se Mimmo Cavallo dovesse presentare Mimmo Cavallo, che cosa direbbe?
Io credo di essere un cantautore identitario, nel senso che costruisco identità perché ormai questa è una croce che mi sono preso sin da piccolo, da quando sono arrivato al Nord. Con Pino Aprile ho scritto il mio disco sul Risorgimento, leggendo testi suoi e anche di altri, non per dividere l’Italia in due, ma soltanto per raccontare una storia che credo sia più vera di quella che ci dicono a scuola, dove ci raccontano soltanto il mitologema del Risorgimento. E quando si è incancrenita una storia falsa, poi è difficile cambiarla. E io cerco di farlo con la musica, anche se mi scontro con questo zoccolo duro, con le persone che non vogliono cambiare e vogliono che le cose restino così: “Garibaldi è un eroe e basta, non rompere le scatole”. Questa nazione che nasce ha insomma bisogno del mito.
– Essere meridionale, come la tua conterranea Mariella Nava, che cosa significa per te?
Taranto e il Salento sono il mio utero mediterraneo. Però al viaggiatore, a chi viene, sfugge questa magnificenza, che noi invece conosciamo bene, con le vestigia del passato. Bisogna che il viaggiatore sappia guardare al di là delle demolizioni che in realtà ci sono, come le spiagge, la “monnezza”, l’ILVA. Ci sono delle immagini che descrivono le colpe degli uomini. Taranto – ma questo vale per tutte le città del Salento – è una specificità sovrapposta, aggrovigliata, perché ci sono tante cose fuse insieme. Io ho suonato in uno scantinato, dove ci sono ancora i blocchi che i greci tagliavano per portarli alla superficie. E poi c’è la parte romana ad una certa altezza e poi c’è quella medioevale. È un posto bellissimo, che si trova nella Taranto vecchia e dove lo spirito del luogo, quello che gli antichi chiamavano il “genius loci”, sembra assente. Bisogna saper guardare perché Taranto aveva piazze antiche, fortificazioni, viuzze, di cui non c’è più niente. Sono posti magici. Se ci fossero state al Nord cose del genere, le avrebbero valorizzate e al loro posto ci sarebbe un museo.
– Tu hai già partecipato ad eventi promossi dall’ANMIL. Credi che la comunicazione sociale, ma vorrei dire culturale, possa passare anche attraverso la musica?
Certo che passa. Passa attraverso la musica, attraverso i film. Basta pensare che l’America si è messa in discussione con un film “Soldato blu”, che ha mandato in crisi la visione eroica e l’epopea del West americano, con gli americani buoni e gli americani cattivi. Loro hanno avuto “Soldato blu”, noi abbiamo avuto “Le mille balle blu” con il Risorgimento. Per questo dico che sono uno che cerca di creare identità. Ai miei concerti basta che venga una persona che mi chieda: “Mi dici i libri dove sono scritte queste cose”. E per me già è tanto. Perché io so che è difficilissimo diffondere queste tesi e cioè che fu il Nord a cannibalizzare il Sud e che le mafie sono servite – e ancora servono – a questo scopo. La musica è la cartina di tornasole di quello che siamo. Quando vedi che il livello musicale si abbassa, capisci in che punto siamo. E quando sento le canzoni di moda, anche se non conosco bene i nomi dei cantanti che vanno di moda, ci sono tanti luoghi comuni, è tutto un “luogo-comunismo”. Io so come si fanno “quelle”, però non puoi scrivere così. Ognuno ha la sua croce, per carità. È come andare a teatro: ci sono persone che vedono un’opera, escono e sono le stesse di prima. Invece un libro, una lettura, deve diventare carne della tua carne, ti deve cambiare. Basta pensare al mio pezzo “Uh mammà'” e a quando dicono “bello quel pezzo sulla mamma”, mentre in realtà parla di una invasione – e non c’è nulla di più tragico – che però la maggior parte della gente sente e non ascolta. Non c’è amore per la verità. È un po’ come nelle cause, dove ci sono la verità giuridica, data dalle persone che dicono che “una cosa è così e basta” e la verità da svelare, l’aleteia. Ecco, bisognerebbe togliere questa coperta di colesterolo storico che hanno le cose. Lo stesso succede anche parlando di amore, di meridionalismo, in tutti i campi insomma.
– Che cosa prevede la tua prossima stagione musicale e su che cosa stai lavorando?
Io attualmente sto in studio, ma non anticipo niente. A Fiorella Mannoia ho dato tre o quattro brani. E quando uno inizia con Fiorella, forse potrebbe anche chiudere con Fiorella. Stiamo valutando se fare un disco insieme. Diciamo che sto facendo contemporaneamente tre cd, che sono tre aspetti dalla mia natura. La prima è etnica e dialettale. E poi ci sono la musica pop e rock. Infine c’è altro aspetto sconosciuto, che è quello di fare un disco “cazzaro”, con canzoni cioè molto amene. Una volta mi sono trovato con Gigi Proietti, gli ho fatto sentire una cosa e lui è impazzito, voleva farla a tutti i costi e poi non si è fatto più niente. Magari mi trovo uno pseudonimo e faccio un cd per conto mio.
Per concludere, tornerai al Disability Pride?
Sì, se ci sarà, magari. Io sono un cantautore che ama soffrire, che prende la macchina e che gira nelle scuole, nei paesini del Sud e del Nord, per parlare ai ragazzi. L’ho fatto anche in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, portando in giro lo spettacolo “Terroni”. Ed è stato bello. Però, ripeto, tutto diventa un fatto culturale. Non puoi leggere un libro, chiuderlo e ritrovarti nello stesso punto in cui eri prima. Quando io ho trovato il testo di “Invincibile”, mi ha distrutto, mi è entrato in tutti i pori, l’ho fatto mio. Dopo guardavo le persone in maniera diversa. Anche quando entri in un ospedale, vedi il dolore in maniera diversa. La sofferenza ti cambia, ti cambia.