Gloria Riva, finalista del Premio Di Donato, intervistata da Luce Tommasi per l’ANMIL

 Intervista all’autrice Gloria Riva, finalista del Premio Di Donato con l’inchiesta “Sicurezza perduta” pubblicata da L’Espresso                                                         

“Nasco come giornalista economica, lavoro per il Gruppo L’Espresso, mi occupo di economia, cronaca e inchieste ad ampio raggio. Ho 35 anni, sono laureata in filosofia, ho fatto un master in giornalismo. Questo il mio background”. Si racconta così Gloria Riva, unica italiana fra gli otto giornalisti che si sono aggiudicati una borsa di studio alla Booth University di Chicago, allo Stigler Center, il Centro di Ricerche economiche diretto da Luigi Zingales. È sua l’inchiesta “La sicurezza perduta. Chi ti uccide sul lavoro” pubblicata da L’Espresso, arrivata seconda al Premio Giornalistico Pietro Di Donato, promosso dal Comune di Taranta Peligna in collaborazione con l’ANMIL. “Un’analisi puntuale delle motivazioni che causano gli incidenti sul lavoro, ricca di statistiche e di infografiche” ha commentato il presidente dell’Associazione, Franco Bettoni. Ma ricominciamo dal punto di partenza. 

Tu apri l’inchiesta parlando di Paola Armellini. Una storia esemplare di giustizia ingiusta. Perché hai deciso di partire da qui? 
Perché racconta il dolore, l’infinito dolore di una madre che non solo ha vissuto la morte di un figlio, che credo sia una delle cose più dolorose che una donna possa affrontare, ma non ha nemmeno avuto giustizia. E questa è una delle problematiche italiane. Quando noi parliamo di super burocrazia, dobbiamo considerare che questa situazione esiste anche quando c’è una tragica morte sul lavoro. Perché succede? Perché c’è un sistema molto complesso nell’assegnazione degli appalti e quindi non si riesce a risalire al committente di un’opera e i titolari delle aziende o delle cooperative, a cui è stato dato il lavoro, giocano a scaricabarile. E in questo non sapere bene chi fa che cosa, non è colpa di nessuno. Questo è uno dei problemi italiani. Ci sono tante situazioni tristi, ma  se apriamo i giornali la notizia principale è che perderemo il lavoro perché le macchine ci sostituiranno. E nel frattempo, magari a fondo a pagina e scritto in piccolo in modo che nessuno legga, si parla di italiani che continuano a morire di lavoro. C’è qualcosa che non quadra. Arrivano i robot, ma intanto c’è chi muore. 

Puoi chiarire meglio questa contraddizione? 
Una questione che mi interessa emerga è proprio il paradosso della robotizzazione. È una cosa che mi lascia veramente basita perché si continua a parlare del fatto che usciremo dalla fabbriche e non avremo più lavoro. È una boutade detta da persone che non sono mai entrate in una fabbrica. È inquietante perché basta parlare con un capo reparto per rendersi conto di quanto siano stupide queste affermazioni sulla tecnologia che domani sostituirà l’uomo. Faccio un esempio: nelle aziende tessili, fino a 50 anni fa, c’era una persona per ogni telaio. Oggi una persona fa andare 120 telai, ma questo non vuol dire che non esistano altri lavoratori, anzi! Magari ci sono meno addetti ai telai, ma più manutentori nelle retrovie per fare in modo che i telai funzionino a pieno regime. Voglio dire che l’industria tessile ha già subito un processo di robotizzazione e di meccanizzazione, ma questo non ha eliminato i dipendenti perché li ha spostati da una mansione ad un’altra. È un esempio che ci fa capire che stiamo sbagliando e che non abbiamo compreso bene dove si andrà a parare. E non è sempre detto che, quando hai a che fare con una macchina, tu abbia la formazione adeguata, perché le macchine sono sempre più complesse. La domanda è se viene fatta formazione per spiegare ai lavoratori come funzionano le macchine. E la risposta è che generalmente non viene fatta. 

Il sottotitolo della tua inchiesta è: “Gli infortuni aumentano”. Come si può invertire la rotta? 
Cito l’INAIL che sostiene di mettere a disposizione una serie di fondi e di strumenti per aumentare la sicurezza in aree molto critiche, come l’agricoltura. Investire nell’aggiornamento dei macchinari è ovviamente importante perché uno dei fattori più preoccupanti – che ho citato nell’inchiesta – è proprio che, negli anni della crisi, le aziende con pochi soldi in cassa non hanno adeguato il loro parco macchine. Dato, questo, che viene confermato anche da alcune associazioni di categoria di Confindustria. E quindi bisogna ripartire da qui, dagli investimenti in macchinari che le imprese italiane devono compiere, oltre che dalla semplificazione della burocrazia. Non occorrono mille sistemi per certificare la presenza degli operai in un cantiere, ma uno solo, chiaro e immediato, per fare questa verifica. Gli ispettori sono pochi, mal pagati – e questo è un problema gigantesco – e vivono una situazione complicata per cui, alla fine, è difficile che avvengano le ispezioni nei cantieri. E se un imprenditore sa che non riceverà l’ispezione, magari questo mese non sistemerà la macchina che si è rotta, ci penserà il prossimo mese o quello dopo ancora, sempre che nel frattempo non succeda qualcosa. La prevenzione è il primo atto da compiere. 

Quanto si potrebbe fare per contribuire, attraverso l’informazione, a creare una cultura della prevenzione? 
Secondo me, la cultura della prevenzione non deve nascere dai giornalisti, ma dall’interesse della politica, delle associazioni di categoria, delle imprese e delle associazioni come l’ANMIL. Sono questi i soggetti che devono far emergere il dibattito perché, per quanto i giornalisti continuino a scrivere notizie come “quest’anno sono aumentati i morti”, sembra che il problema non interessi molto. C’è quindi qualcosa che si è rotto in questo sistema. Bisogna lavorare tutti insieme. Non basta che il giornalista scriva un articolo, ci vuole qualcosa di più, occorre un’attenzione maggiore anche nelle scuole, e soprattutto in quelle professionali, perché i primi ad essere coinvolti sono i lavoratori. E anche i sindacati dovrebbero insistere molto di più sulla sicurezza perché sono loro i primi responsabili. E voglio insistere sul fatto che si dovrebbero fare dei corsi per la sicurezza che non siano soltanto pezzi di carta o questionari on line, ma insegnino come funzionano i macchinari e quali sono le procedure corrette. Mi chiedo se si vada veramente nello specifico. Io non ne sono convinta perché, a quanto ho capito, i corsi sulla sicurezza sono spesso attestati, a volte fasulli, che l’impresa fa soltanto perché è obbligata e non perché ci tiene davvero. E quindi occorre premiare le aziende che fanno del modello di sicurezza un proprio vanto: questo mi sembra corretto. 

Secondo te che cosa fa notizia? 
Il morto. Se ne parla il primo giorno e magari il terzo giorno ce ne siamo già dimenticati. Sinceramente non mi spiego questa cosa. Si presta senza dubbio poca attenzione ad un tema che è molto problematico: né le imprese, né i sindacati hanno infatti interesse che venga fuori perché dovrebbero ammettere le loro responsabilità e la loro scarsa attenzione. Gli stessi dipendenti non vedono l’ora di dimenticare che un loro collega è morto e che nell’azienda in cui lavorano c’è stato qualcosa che non ha funzionato. Restano le famiglie, che però rimangono imprigionate nel caos della burocrazia e della giustizia e il più delle volte si devono concentrare su questi aspetti piuttosto che dare voce a quello che hanno subito e finiscono quindi per chiudersi su loro stesse. 

Dunque il sociale oggi non fa notizia, a meno che non ci sia il fattaccio? 
I temi di attualità oggi sono l’immigrazione e il lavoro, inteso come disoccupazione. Il sociale viene raccontato quando c’è qualcosa che non funziona, quando ad esempio si trova una pecca nelle Ong. Questo fa notizia e non tutto ciò che va al di là della cronaca o che tende a spiegare perché alcune cose non vanno bene. Non credo che il sociale possa ridurre le morti sul lavoro. Il punto è che un quotidiano si occupa della cronaca e del fattaccio e un giornale di approfondimento – come l’Espresso o alcuni programmi della Rai – cerca di andare dentro i problemi. Ma articoli del genere si fanno una volta all’anno e non tutte le settimane è possibile tornare su questi temi. Non basta per cambiare le cose! C’è anche da dire che ai capiredattori questo argomento non piace molto perché, in realtà, non è mai cambiato niente e quindi l’articolo che posso fare adesso è uguale a quello ho scritto un anno prima e un anno prima ancora. Non c’è mai stata una evoluzione positiva nella lotta agli incidenti sul lavoro. Non per questo bisogna però smettere di parlarne e di proporli al proprio direttore, anche se a volte la risposta può essere: “Non hai qualcosa di più nuovo?”. 

Ma se tu proponessi a L’Espresso “un viaggio nelle vite di famiglie con un ragazzo disabile”, quale sarebbe la risposta?  
Sono temi che si possono assolutamente proporre. Sì, credo che la risposta sarebbe positiva. Dove lavoro, c’è questo tipo di sensibilità, certo. 

E allora, a quando il prossimo pezzo sugli incidenti sul lavoro? Scriverai ancora su questo argomento? 
Alla fine di marzo andrò all’estero, dove resterò per tre mesi. Tornerò a giugno e credo di riprendere questo tema nella seconda metà dell’anno. Paradossalmente ci si sta occupando di questo argomento soprattutto quando la vittima di un incidente sul lavoro è un migrante. E allora fa notizia. Personalmente non sono d’accordo sul fatto che esista una differenza tra un bianco e un nero, quando si parla di un morto sul lavoro. Si tratta sempre di un uomo e lo sfruttamento, che molto spesso sta dietro una tragedia, non ha a che fare con il colore della pelle. 

Come giovane giornalista, qual è secondo te il futuro del nostro lavoro e in quale direzione sta andando? 
Io sono più vicina ad una generazione di giornalisti come la tua, piuttosto che a quella dei ventenni che stanno emergendo oggi. La mia sensibilità sul futuro del giornalismo nasce dal fatto che vengo dalla carta stampata e ho fatto un percorso lineare, mentre vedo che esiste un nuovo modello di fare informazione, che non è negativo, anzi è molto più immediato, di cui i ventenni si stanno appropriando e che passa dall’istant book, da instagram, da pubblicazioni on line, da twitter, da facebook, insomma da una grande capacità di sfruttare i social. In quanto a contenuti, dipende. Io credo che non si diventi giornalisti perché si prende un tesserino, ma perché si sta a contatto con persone di una certa levatura e si apprende da loro. Il giornalismo è un mestiere ancora artigianale e sono convinta che le scuole di giornalismo arrivino sino ad un certo punto, ti diano un imprinting, ma che poi sia necessario fare esperienza sul campo. Secondo me il futuro del giornalismo ha un grandissimo potenziale con le nuove generazioni perché hanno competenze social molto forti, ma proprio per questo devono evitare il rischio di ritenersi superiori e di pensare di non avere niente da imparare da chi è venuto prima di loro. Se riuscissero a mettere insieme le due cose, supertecnologia e capacità di apprendimento, allora il giornalismo avrebbe una grande possibilità di sviluppo. 

Per concludere, hai qualche suggerimento per la prossima edizione del Premio Di Donato? 
Sarebbe bello realizzare qualcosa insieme. Oltre all’assegnazione del Premio, si potrebbero impegnare i giornalisti interessati a queste tematiche a realizzare qualcosa, unendo le loro forze e creando una rete di persone per fare in modo che questi contatti non vengano dispersi. Penso che chi si rivolge all’ANMIL, per avere informazioni sull’andamento degli incidenti sul lavoro, possa così avere l’opportunità di entrare in rapporto con altri colleghi e fare parte di un gruppo che tenga continuamente monitorato il settore. Concludo dicendo che per me è stato molto emozionante vincere questo Premio, anche se per un lutto familiare non ho potuto ritirarlo personalmente e godermi il momento. Ma adesso devo pensare a Chicago e alla mia borsa di studio in economia, una grande occasione per me.