Caporalato: lo schiavismo del Terzo millennio a cura di Franco D'Amico

Il 25% delle aziende agricole che utilizza manodopera dipendente (circa 30.000 unità locali) si avvale di caporali per reclutare circa 180.000 lavoratori in nero.

Il caporalato è soltanto una delle componenti di quel mondo sommerso e variegato ancora molto diffuso in vaste aree del Paese: il mondo del lavoro irregolare. Esistono varie forme di lavoro irregolare, con diversi livelli di gravità sociale ed economica ma, sotto il profilo strettamente etico, il caporalato rappresenta sicuramente la forma più riprovevole ed odiosa, in quanto si configura come una vera e propria tratta di esseri umani, una sorta di schiavismo in chiave moderna.
Nel dibattito politico italiano questo fenomeno è stato spesso collegato quasi esclusivamente all’immigrazione nel Mezzogiorno e all’Agricoltura, ma di fatto è una pratica che riguarda tutto il territorio nazionale e anche altri settori (edilizia e ristorazione in primis), per quanto sia effettivamente più sviluppato nelle regioni meridionali e nella filiera agroalimentare. La caratteristica fondamentale del caporalato è che la sua opera di mediazione, o meglio, di coercizione si concentra sulle fasce più deboli e vulnerabili della forza lavoro: anche se non mancano gli italiani, a partire dagli anni ‘80 è aumentata sempre più la quota di immigrati provenienti da Medio Oriente, Africa sub sahariana ed Europa dell’est.
Non esistono, ovviamente, statistiche ufficiali in questo campo, ma soltanto indagini “ad hoc” elaborate da Istituti specializzati o, più spesso, da Associazioni impegnate nel sociale. Tra queste, l’ultimo Rapporto “Agromafie e caporalato”, presentato il 16 ottobre scorso dall’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, stima che almeno il 25% delle aziende agricole che si avvale di manodopera dipendente (circa 30.000 unità locali) ricorre ai servizi dei cosiddetti caporali capi-squadra per ingaggiare circa 180.000 lavoratori in nero.
La pratica del caporalato in agricoltura, oltre a causare un mancato gettito contributivo stimato intorno a 600 milioni di euro l’anno, provvede a finanziare il business delle agromafie, il cui giro di affari ammonta a circa 5 miliardi di euro/anno. A fronte di queste cifre, la paga media giornaliera di un lavoratore è di 25/30 euro (circa 3 euro l’ora); paga che si riduce notevolmente fino quasi a dimezzarsi se si tratta di donne che, peraltro, vengono sfruttate, ricattate e, non di rado, abusate sessualmente da caporali che spesso sono loro connazionali.
Sfruttamento del lavoro e caporalato, come si diceva, si inseriscono prepotentemente nel più ampio contesto del lavoro irregolare.
Anche in questo campo non esistono statistiche ufficiali, ma informazioni su andamenti, dimensioni e caratteristiche del fenomeno si possono ricavare dai Rapporti dedicati che vengono periodicamente pubblicati dall’ISTAT.
Le stime più recenti (anno 2018) elaborate dall’Istituto Nazionale di Statistica parlano di circa 3,7 milioni di lavoratori irregolari, di cui 2,7 milioni (73% del totale) nel lavoro dipendente ed 1 milione (27%) nel lavoro autonomo.
In termini economici si stima in 211 miliardi di euro il valore aggiunto dell’economia sommersa, con un’incidenza dell’11,9% sul PIL nazionale. La tendenza è comunque in calo: nel 2014 era del 13%.
Il Tasso di irregolarità (numero di lavoratori irregolari per 100 lavoratori) stimato a livello nazionale è pari a 12,9%, ma risulta molto differenziato sia a livello di territorio che di settore di attività economica.
A livello territoriale, i tassi di irregolarità più elevati si registrano principalmente nelle regioni del Mezzogiorno, in particolare Calabria (21,6%), Campania (19,8%), Sicilia (19,4%) e Puglia (16,6%). Per contro, le regioni più virtuose risultano essere la Valle d’Aosta, il Veneto e la provincia autonoma di Bolzano.
A livello settoriale l’attività più colpita è l’Agricoltura, che presenta un tasso di irregolarità pari al 24,3% ma, secondo le stime dell’Associazione “Tempi moderni”, tale quota raggiungerebbe il 39% se riferita ai lavoratori immigrati e sarebbe salita addirittura al 48% durante il travagliato periodo della pandemia. Seguono, in questa squallida graduatoria, le Costruzioni (16,3% di irregolari), Alloggio e ristorazione (16,0%), Commercio (11,4%) e Tessile (9,6%).
Ma, al di là di questi settori di primaria rilevanza, ci sono due comparti di attività legati ai Servizi alle persone che fanno registrare tassi di irregolarità di dimensioni eclatanti: sono la “Riparazione di beni per la casa” (tasso di irregolarità 43,3%) e, ancor più, il “Lavoro domestico” (colf e badanti), dove il tasso raggiunge un valore pari a ben 57,6%. Si tratta, evidentemente, di rapporti di lavoro che si instaurano all’interno delle abitazioni private ed hanno, quindi, scarse probabilità di venire alla luce. Peraltro i dati relativi ai Lavoratori domestici vengono confermati anche dall’INPS, dove risultano assicurati meno di 900.000 lavoratori, mentre tutti gli addetti ai lavori concordano nello stimarne almeno 2 milioni.